Da qualunque parte ti giri, ti assale l’amarezza, la rabbia, la delusione. Una città che aveva nel verde la principale delle sue risorse, vede da qualche mese questa risorsa gravemente compromessa, a causa di una serie di tagli feroci, spietati, indiscriminati, irreversibili. E le piante, spesso alte dieci metri, si accasciano dopo qualche minuto di sega elettrica che recide il fusto, cadendo come statue di sale sotto il sole.
Tutto ha inizio il 22 marzo 2018, quando sul viale del parcheggio della scuola elementare di Via Perugia, quartiere Risorgimento, un albero, mai curato e di conseguenza marcito internamente, appesantito dalla neve caduta, si abbatte su una macchina parcheggiata. Per fortuna, proprio a causa della nevicata, quel giorno le scuole sono chiuse, ma quella caduta rovinosa ed imprevista fa sorgere mille interrogativi di preoccupazione alle famiglie che ogni giorno vanno a prendere i bambini a scuola: “e se sotto quella quercia ci fosse stato nostro figlio?” Tanto basta per armare le motoseghe e prevenire qualunque altra di queste domande, qualunque altro di questi crolli, qualunque altra preoccupazione. Inizia il “Pogrom” degli alberi come la notte dei cristalli del 1938, solo che la mattanza non dura una notte, ma dura settimane, mesi, nei quali la città è deprivata di decine e decine di alberi di alto fusto, colpevoli solo di essere stati piantati in prossimità di strade e passaggi pedonali.
Il rumore di motoseghe per qualche tempo è una delle tristi colonne sonore della città ed intaglia in profondità non solo le querce immobili, ma anche le orecchie e forse le anime dei cittadini, spesso impassibili di fronte agli spietati abbattimenti. Ancora una volta mi viene in mente un parallelismo con l’ecatombe nei campi di sterminio, ma non voglio farmi prendere dall’emotività e provo a restare razionale.
Cosa spinge i decisori a tagli così violenti, così frequenti, così numerosi? In primis un tardivo senso di responsabilità: se un albero mal tenuto, mai curato e mai alleggerito rischia di cadere, potrebbe provocare danni inimmaginabili, date le dimensioni e data la sua localizzazione, con conseguenze penali per i pubblici amministratori, that’s understood. Qualche buontempone ironizza dicendo che “gli alberi non dovrebbero stare in città, ma solo nei parchi“. Mi verrebbe da rispondere: perchè nei parchi non passa gente? Perchè, nelle altre città non ci sono alberi sui bordi delle strade, o in prossimità delle scuole? Ma voi qualche volta ci siete stati in qualche altro posto fuori da qui?
Ma non rispondo, inghiotto amaro. Non può essere, mi dico, non può essere questa la soluzione. Non si può rispondere all’incuria di decenni semplicemente abbattendo. Senza condivisione, senza preventiva analisi dello stato delle piante, senza distinzione tra la pianta che è marcia e quella che è sana, senza una consulenza, senza nessuna cognizione: si taglia e basta perchè “noi non possiamo rischiare di andare in galera“. No, amici miei. Anzi no: quelli che fanno questo alla natura non possono essere amici. Troppo facile. Troppo banale estirpare un rischio potenziale quale risposta alla mancanza assoluta di manutenzione.
“Qualsiasi stupido è capace di distruggere gli alberi; non possono né difendersi né scappare” (John Muir).
Sta di fatto che il volto della città è cambiato, in peggio. Oltre al cemento dovunque, adesso abbiamo anche la mancanza di verde, dovunque. E la somma (il “combinato disposto”, come si usa dire oggi) è drammatica, fa male alla vista, fa male al cuore.
Viali diventati semplici vie, quartieri e parchi diventati grigi, prati diventati parcheggi. E’ questa la città che vogliamo?
E allora ci guardiamo intorno e incrociamo altri occhi, altri stomaci in subbuglio, altre anime doloranti e ci chiediamo: cosa possiamo fare? Cosa si può fare per evitare che tra un anno, due, vi sia una nuova mattanza, una nuova notte dei cristalli, nuove paure ad abbattere vecchie piante? Reagiamo, ci diciamo con forza, non possiamo starcene qui fermi ad assistere, facciamo qualcosa, coinvolgiamo altre anime che soffrono come noi, impediamo altri massacri, mai più tagli per rispondere alla paura.
Firme. Raccogliamo firme, diventiamo forti e poi sbattiamo i pugni sui tavoli, perdiana! La città non è nostra: è di chi la abiterà dopo, le paure si combattono con la forza dell’intelligenza e la capacità di fare programmazione, non soltanto abbattendo e abbattendo ancora.
Forza e coraggio, rialziamoci noi per rialzare cento, mille piante cadute. La città non è nostra, è di chi la abiterà tra cinquant’anni e la scoprirà ancora bella e meravigliosa, come quando un giorno, tanto tempo fa ormai, l’abbiamo scoperta noi.
“Un albero è vivo come un popolo più che come un individuo, abbatterlo dovrebbe essere compito solo del fulmine” (Erri De Luca)
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