Un giorno un ragazzino di 13 anni entrò nel palazzetto CONI in una fredda serata di ottobre. Attraversò, emozionato e a piedi, il lungo ponte di Montereale, provenendo da quella che, in quel tempo, era ancora una periferia.
L’ingresso al palazzetto era di quelli che al ragazzino sembrava un tempio dello sport, anche se in realtà era poco più di una palestra.
Lui aveva giocato, fino a quel momento, solo nei playground dai salesiani con amici e la sua professoressa di matematica, sorella di un allenatore della città, gli aveva detto: “Ehi, mi hanno detto che giochi a pallacanestro, mio fratello è un allenatore: perchè non vai a provare anche tu?”
Il ragazzo aveva guardato i suoi due compagni di playground, ai quali era stato rivolto lo stesso invito. Veramente non si chiamavano ancora playground, ma più semplicemente: campetti. E quelli si erano stretti nelle spalle, come una risposta che forse voleva dire: “Ma si, in fondo che abbiamo da perdere?”
E così i tre ragazzi affrontano il lungo cammino a piedi che da Rione Risorgimento li portava lungo Via Mazzini e, appunto, al palazzetto CONI.
L’allenatore somigliava un pò a Frank Sinatra, solo che non cantava, anzi sembrava rigido e serioso, e la prima disposizione che diede a tutti era di mettersi in ordine di altezza, ma quel giorno era senza voce e doveva spiegarsi a gesti, disegnando con le mani nell’aria una linea in diagonale che tutti i ragazzi erano chiamati a rispettare.
Era affiancato da uno dei suoi giocatori di punta della prima squadra, che lo aiutava a mettere ordine, come in quel momento, o a dare qualche consiglio. Una specie di assistente, insomma.
Il ragazzo però, emozionato come mai gli era capitato prima, non capì bene le indicazioni, e sbagliò il posto dove mettersi, rompendo la riga perfetta che tutti gli altri avevano osservato con cura.
L’allenatore consultò qualcosa su dei foglietti, quello che faceva da assistente intanto guardò la fila e vide questo ragazzo che era proprio fuori posto e lo guardò male, e fece degli strani segni con gli occhi perchè non voleva disturbare quella specie di rito strano che si stava consumando. C’era una tensione incredibile a cui nessuno dei presenti era abituato perchè l’allenatore stava per impartire i primi “comandamenti”.
Così quando l’allenatore alzò gli occhi da sopra i fogli che stava guardando, si accorse che nella fila c’era qualcosa che non andava, ma siccome non poteva parlare, si limitò a guardare quel ragazzo con un’espressione che sembrava dire: “Ma dove ti sei messo?“.
Il ragazzo allora capì che c’era qualcosa che non andava e cercò un posto più idoneo che rispettasse quella fila che era una diagonale non perfetta che sembrava un flauto di Pan, solo che al posto delle canne di legno c’erano dei ragazzi, con le loro emozioni, i loro sentimenti, le loro insicurezze e i loro sogni, tutti lì in riga sopra un pavimento di cemento, tutti perfettamente sistemati in ordine di altezza. Tranne uno.
L’unico che non aveva rispettato la fila, rompendo quella irreale geometria, era lui. Mentre sentiva il cuore rimbombare dentro il suo petto, maledicendosi per l’emozione che non gli aveva fatto capire dove sistemarsi, cercava di capire quale fosse il posto giusto in mezzo a tutti gli altri, tra quello un po’ più alto di lui e l’altro un pochino più basso.
Mentre cercava di sistemarsi nel posto giusto, l’allenatore richiamò la sua attenzione.
Il ragazzo si sentì di morire, e si disse che non sarebbe mai più andato a fare un provino per entrare in una squadra, e che era molto meglio continuare a giocare nel campetto, senza nessuna riga strana da rispettare, solo una regola: fare canestro.
Ma si sbagliò perchè l’allenatore non voleva rimproverarlo, ma solo sapere il suo nome.
Quando il ragazzo glielo disse, quello fece segno che andava bene, che adesso poteva andare al suo posto.
Poi l’allenamento cominciò, non tutti i ragazzi capirono esattamente quello che dovevano fare, ma alla fine si divertirono tutti e tornarono nelle loro case con una speranza in più per il loro futuro di giovani giocatori.
Questa è una storia vera, successa nel palazzetto CONI di Potenza, nell’autunno di parecchi anni fa.
L’allenatore che somigliava a Frank Sinatra era Gigino Lomagro.
Il giocatore che gli faceva da assistente era Gianfranco Pace.
E quel ragazzo che sbagliò la fila ero io.
23 thoughts on “L’allenatore e il ragazzo di quartiere”
I commenti sono chiusi.