“Improvvisamente l’acqua è scaturita bollente. Dalle docce, cinque minuti di beatitudine; ma subito dopo irrompono quattro (forse sono i barbieri) che, bagnati e fumanti, ci cacciano con urla e spintoni nella camera attigua, che è gelida; qui altra gente urlante ci butta addosso non so che stracci, e ci schiaccia in mano un paio di scarpacce a suola di legno, non abbiamo tempo di comprendere e già ci troviamo all’aperto, sulla neve azzurra e gelida dell’alba, e, scalzi e nudi,con tutto il corredo in mano, dobbiamo correre fino ad un’altra baracca a un centinaio di metri. Qui ci è concesso di vestirci.[…] Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera. Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. […] Piú giú di cosi non si può andare: condizione umana piú misera non c’è, e non è pensabile”. Da: “Se questo è un uomo” , Primo Levi.
La frase che più mi ha colpito, nella disperazione di tutto il brano, è: “la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa”. Una lingua,come quella italiana, tra le più ricche di vocaboli dell’intero pianeta, non aveva (e non ha ancora) coniato le parole giuste per descrivere l’orrore dei campi di sterminio.
Oggi, 27 gennaio, ricorre la Giornata della Memoria, in cui tutti devono andare con la mente a quel periodo tremendo per la storia dell’Umanità. Un periodo contrassegnato dalla più grande operazione di sterminio della razza umana, che, erroneamente, va sotto il termine di “Olocausto”. E anche qui c’è da disquisire sul senso profondo di questa parola. Il termine Olocausto traduce un termine biblico legato ai sacrifici degli animali, che vuol dire “tutto bruciato”: il fumo che sale da quel sacrificio “è odore gradito al Signore”. Poichè non è chiaro cosa si volesse dire con l’associazione dello sterminio degli ebrei all’offerta sacrificale del mondo antico (quasi come se fosse stata un “sacrificio” dei nazisti al “dio della Razza”), da qualche tempo è maggiormente ricorrente l’uso del termine ebraico Shoah, ritenuto meno connotato in senso religioso. Shoah assume il senso legato all’idea di distruzione. E anche qui stiamo parlando di particolari significati che assumono delle semplici parole. Ma la terminologia più ripugnante è quella usata dal Terzo Reich per contraddistinguere tutte le operazioni legate all’eliminazione di circa i due terzi degli ebrei d’Europa portata a termine dalla Germania nazista mediante un complesso apparato amministrativo, economico e militare che coinvolse gran parte delle strutture di potere del regime.
La macchina dello sterminio doveva essere mantenuta costantemente nella massima segretezza. Tanto per cominciare nessuna indicazione venne fornita sulla destinazione dei lunghi convogli ferroviari che da tutta Europa trasferivano gli ebrei. Per tranquillizzare le vittime si diffondevano voci su nuovi insediamenti “confortevoli” creati appositamente per i deportati. La terminologia usata in quel periodo non era destinata solo per le milioni di vittime designate alla morte: lo stato maggiore del Reich, e Hitler in modo particolare e naturalmente il responsabile della Propaganda, il diabolico Joseph Goebbels, intuirono come gli stessi esecutori dei campi di concentramento molto difficilmente avrebbero potuto comprendere quale fosse la reale finalità di quei campi. E così, ancora una volta, il linguaggio fu la prima cosa che venne artatamente mistificata per rendere la verità del tutto illusoria, molto lontana da ciò che sarebbe accaduto. Per indicare tutta una serie di azioni propedeutiche all’unica vera finalità dei campi di sterminio, il genocidio, vennero tirate fuori delle espressioni totalmente eufemistiche ed edulcorate come: emigrazione, trattamento speciale, bonifica, trasferimento di residenza, decremento naturale, azioni speciali, reinsediamento, provvedimenti esecutivi.
Ci sono due modi attraverso i quali il potere tenta di mistificare la realtà e piegarla al proprio volere: un forte condizionamento degli strumenti di comunicazione di massa e l’uso distorto delle parole, mutando il cui significato, ogni azione assume connotati differenti da ciò che realmente vuole ottenere.
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