Una mattina di aprile la signora aspettava l’autobus. Era in piedi, alla fermata, dritta come l’obelisco egizio in piazza della Concordia.
Mai – e dico mai – si sarebbe accomodata sulla lurida panchina che ospitava i passeggeri nell’angusta fermata dell’autobus a piazza don Bosco (già piazza Cagliari). E non cedette alla tentazione di sedersi su quella lurida panchina neppure dopo un’ora che aspettava. Doveva andare a trovare la nuora in ospedale, con la sua bella busta di plastica con le melanzane arrosto preparate dalle sue manine preziose. Ma quel maledetto autobus non passava. Allo scoccare dell’ora e un quarto di attesa, la signora prese una decisione cruciale. Decise di salire sul primo autobus che passava. Non importava dove andasse. Aveva aspettato talmente tanto che le andava bene qualunque destinazione, pur di salirci, su quell’autobus. Doveva andare all’ospedale e si ritrovò allo scalo inferiore.
“Potenza centrale, Stazione di Potenza centrale”, gracchiava un altoparlante dentro l’elegante palazzo ristrutturato della stazione. Scese dalle scalette dell’autobus sentendosi Nicole Kidman sulle scale dell’Ariston, mancava solo Carlo Conti che andasse a prenderla. Poggiati i suoi piedi al centro del piazzale dove l’autobus aveva scaricato i passeggeri si sentì come un’importante diva del cinema (muto, perché non c’era un rumore intorno) e si guardò intorno come fece Anita Ekberg nel film La dolce Vita. Ma non c’era né una fontana in cui bagnarsi né Marcello Mastroianni ad accompagnarla. E fu lì che si ricordò che si doveva fare un paio di foto tessere. Certi bisogni nascono dalle contingenze.
Così entrò nei locali della stazione indossando un foulard sulla testa e degli occhiali da sole come Thelma e Louise (tutte e due in una) e appena le si spalancarono davanti le sliding doors della stazione si sentì a un bivio della sua vita come Gwineth Paltrow nell’omonimo film, allora fece il suo ingresso nella sala biglietteria sfidando con lo sguardo le operatrici delle FF.SS. che la guardavano come una diva.
“Che cazz tenèt da guardà”, pensò, ma non una sola parola uscì dalla sua bocca, erano i suoi occhi che parlavano e azzittirono l’intera stazione, marmi e orologi inclusi. Perfino i tabelloni che indicavano gli orari dei treni si fermarono, rapiti dalla attrice-casalinga di Verderuolo superiore.
Con passo deciso e calcolato, si infilò dentro la macchinetta che faceva le foto, cambiando posa nei quattro scatti consecutivi, la prima era seria di fronte, la seconda sorrise un pò, leggermente di 3/4 a sinistra, la terzza sorrise ma di 3/4 a destra, la quarta fece una smorfia, avendo esaurito le espressioni cinematografiche a disposizione. Poi si rimise gli occhiali, si aggiustò il rossetto che non aveva (ma faceva tremendamente figo grattarsi l’angolo della bocca con il dito mignolo), scostò la tendina scura, uscì dalla cabina e si mise in attesa di vedere il suo capolavoro sotto forma di foto tessere dall’apposita fessura, attendendo lo sviluppo con gli occhi attenti sopra le lenti scure.
Quando uscì la carta patinata con le quattro immagini, la prese toccandola solo sui bordi e soffiandoci sopra per fare asciugare le foto, poi le allontanò dagli occhi per guardarle un pò da lontano e si ammirò come Ava Gardner, sentendosi felice di essere capitata in quella stazione dove non aveva più messo piede da quando era partita per il viaggio di nozze a Roma, circa 40 anni prima.
Era serena perché la sua mattinata non l’aveva buttata via. Le melanzane sott’olio invece sì. La nuora poteva anche aspettare. Gliene avrebbe preparate delle altre. Forse.
Adesso che si sentiva come Thelma (o era Louise? Io quellu film non l’agg mai capit), le sue attenzioni dovevano concentrarsi su cose più importanti. Quanto tempo nella sua vita aveva sprecato. Adesso sì che l’aveva capito, finalmente. E tutto grazie ad un autobus atteso circa un’ora e un quarto e poi preso a caso.
Qualcuno a questo punto si potrebbe chiedere come avesse fatto a tornare a casa, ma questa non era ancora la sua preoccupazione principale. Doveva ricordarsi a cose le servivano quelle quattro foto, ma qualcosa si sarebbe inventata.
Uscì nel piazzale di Cinecittà, pardon, della stazione, tentata di aspettare nuovamente l’autobus, ma capì che se l’avesse fatto, sarebbe arrivata a casa il giorno dopo. E una come lei non poteva più buttar via il suo tempo ad aspettare uno stupido mezzo di trasporto pubblico.
Prese il cellulare e iniziò a comporre il numero di suo figlio. Già, ma poi gli doveva spiegare come mai si trovasse alla stazione di Potenza inferiore. Centrale, sì ho capito Rocchì, si chiama Centrale adesso. Che palle ca sì, figl mì. Vabbuò ho capito. Riagganciò, ripose il telefono in borsa, si aggiustò il foulard, si sistemò gli occhiali da sole per bene sulla fronte e si diede un tono per pronunciare quella parola che in vita sua non aveva detto mai: “Tassì?” e si chiese se si pronunciava TAXI, ma sì, tanto quello aveva capito.
Quando salì sul taxi che era già pronto alla stazione, l’autista era fermo aspettando un ordine.
Mè, amma fà notte? Allora quello le disse gentilmente: “Signora dove la devo portare?”
Capì solo allora che doveva dargli l’indirizzo di casa. Lo pronunciò con la migliore dizione che poteva. Mentre la macchina partì, si ricordò quando una volta suo marito era andato a funghi e quando era tornato le aveva detto che la vita è una cosa meravigliosa. E, per una volta, dovette dargli ragione.
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