Era l’inizio del 1984, ero ancora abbastanza giovane da giocare a pallone con porte improvvisate, ma abbastanza vecchio da permettermi di apprezzare i buoni film. Allora c’era Minà che imperversava nella tv italiana e quella volta in un programma che mi sembra si chiamasse “Blitz”, fece una visita direttamente al back stage dell’ultima scena del film C’era una volta in America, il film che proprio oggi, 17 febbraio (1984) uscì nelle sale americane.
Ricordo ancora chiaramente che la troupe della Rai fu ammessa nella villa dove Sergio Leone girò l’ultima scena, quella nella quale De Niro, risalendo le scale per accedere al piano del senatore Bailey (James Woods), entrò dalla porta di servizio, ingrassato di oltre 30 chili appositamente per girare determinate scene di quel film. L’attore americano non era nuovo ad esperienze del genere, perché per Toro Scatenato di Scorsese di appena pochi anni prima (che raccontava la storia di Jack La Motta, pugile italo americano), aveva realizzato sul suo fisico la stessa trasformazione.
Appena entrò De Niro in scena, Sergio Leone fermò la macchina e si concesse ad un intervista a Minà, per parlare del film più impegnativo di tutta la sua carriera, un film che aveva richiesto circa dieci anni di lavoro. Fino ad allora non amavo particolarmente Leone, poiché non apprezzavo abbastanza il suo cinema western, ma di C’era una volta in America, vuoi per l’ambientazione più vicina ai nostri tempi, vuoi per il cast obiettivamente stellare, ebbi subito un’impressione folgorante, tant’è che, appena arrivato in Italia, lo andai a vedere con la piena consapevolezza che sarebbe stato un capolavoro.
È difficile che capiti una cosa del genere prima di vedere un film, anzi quando le attese sono così elevate non di rado succede che esci dalla proiezione piuttosto deluso. La scena che attesi con maggiore trepidazione non era relativa alle scene di maggior thrilling, ma quella che, nelle interviste di Minà, venne descritta da De Niro e Leone come “la scena più violenta di tutto il film”.
Fui enormemente sorpreso nel constatare che la scena era una normalissima riunione nella quale i membri della band erano seduti attorno ad un tavolo a bere un caffè, e De Niro girava piano il suo cucchiaio nella tazzina per circa 30 secondi guardando negli occhi tutti i presenti. Nulla di più: non una parola, solo immagini. Lì per lì la cosa mi incuriosì e basta, e pensai che l’aver individuato in quelle sequenze apparentemente normali, un’atmosfera particolarmente carica di tensione, ci voleva effettivamente una bella dose di fantasia. Ma quando in sala si presentò la scena in cui l’attore americano girò il suo cucchiaino nella tazzina, con il rumore assordante del metallo contro la porcellana e la tensione che correva negli occhi di tutti i protagonisti della pellicola, beh, forse è stato in quel momento che ho capito come pochi secondi di film possono rimanerti impressi per tutta la vita.
E oggi, dopo 32 anni tondi tondi, sono ancora qui a ricordare, fotogramma per fotogramma e decibel per decibel, ogni singolo frammento di quelle inquadrature.
Nei giorni successivi andai in giro per Napoli (dove studiavo) a cercare il poster del film da cui ne feci un enorme quadro che ancora oggi adorna la mia stanza, e soltanto molti anni dopo, attraverso una moderno sito di aste on line, sono entrato in possesso del libro dal quale Leone trasse ispirazione, un libro che non viene più stampato da anni e non di grande valore per la letteratura americana: “Mano armata” di Henry Grey.
E a volte, inconsciamente, quando prendo il caffè e giro il cucchiaio nella tazzina, capita anche a me di guardarmi intorno, solo che non ci trovo né James Woods, né Tuesday Weld, né William Forsythe, ma mi sento ugualmente come se facessi anch’io una piccola parte dentro quel film.
Effetti di un cinema che non uscirà mai più dalle nostre vite.
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