La pioggia di cemento

Un aneddoto, chiedono quelli che non c’erano ancora e sono tanti, sono le nuove leve.
E cosa gli dici che non è ancora stato detto dopo 34 anni?
Frughi nella memoria – quel poco che é rimasta- e trovi la storia di G., uno cresciuto a ’68 e a Giorgio Gaber, anzi uno che un giorno mi disse: “Ma tu lo conosci il Dialogo tra un impegnato e un non so“?

Io non sapevo nemmeno quello che stava dicendo.
E qualche anno dopo, la sera delle lancette che si fermarono sull’orologio grande nella piazza, si trovava proprio lì sotto mentre pioveva. 
Solo che non era la solita pioggia, era pioggia di mattoni e cemento e veniva giù dallo stesso cielo e non c’erano ombrelli per ripararsi da quella pioggia lì. 
E la sua testa, piena di Gaber, Guccini, De André, non era troppo dura per fermare quella pioggia e ne fu colpita una, due, dieci, cento volte e finí lì sotto come il fiume che tutto copre.
Ho visto anche uno zingaro felice, sotto quelle macerie di polvere e di morte e di orologi fermati come i nostri cuori.

Il giorno dopo ci dissero che non ce l’aveva fatta, che la pioggia di cemento aveva portato via un altro ragazzo colpevole solo di aver preso il vicolo sbagliato. 
Il suo nome finì dentro un manifesto con la cornice nera intorno.
Stop con La locomotiva, stop con La canzone di Marinella, stop con il Dialogo tra un impegnato e un non so..
Poi scoprimmo che era stato portato in elicottero in un ospedale fuori regione, quella testa si dimostrò più dura dell’Apocalisse che scendeva dal cielo plumbeo, lo operarono e lo ripescarono dall’inferno di quel vicolo dove cadde.
E oggi lo vedi ancora aggirarsi dalle parti di via Pretoria, che corre ancora come quella locomotiva impazzita che mi fece sentire negli anni della scuola.
Il suo cuore di zingaro felice si era rotolato per terra, ma il sapore della polvere lo ha sputato ed è tornato a sorridere alla sua vita restituita.
E ancora oggi, quando passo dalla sua bottega fatta di carta, penso ancora a quella testa piena di musica e a tutte quelle note stampate lì dentro, che forse gli hanno salvato la vita.

NON ERAVAMO PRONTI
Ignari, felici di quel poco che avevamo, e anche di quello che non avevamo, ma che non costituiva un miraggio.
Una cosa che non era alla nostra portata semplicemente non si poteva avere. Punto.
Chi se ne frega, c’era il basket, ed era un motivo sufficiente a tirare avanti.
Poi c’era il palazzetto Coni che non era solo un campo di gioco, era un luogo di incontro, di chiacchierate, di socializzazione, come si direbbe oggi.
Era molto di più di un semplice campo rettangolare (piuttosto piccolo, a pensarci oggi), dove correre dietro quella palla arancione che aveva ancora tutto un colore, con delle striature lungo il perimetro che la disegnavano come fossero degli spicchi di arancia.
Si, un’arancia, solo più grande, più tonda e pesante. E perfetta: avevamo imparato a maneggiarla con abilità, avevamo fatto numerosi esercizi di presa, di trattamento, di destrezza. E poi i fondamentali, le partenze, i passaggi e quel mix di incredibile scienza applicata allo sport che si chiama biomeccanica, tutto per far entrare quell’arancio sproporzionato dentro un anello, anch’esso di colore arancione.
Ma alla fine avevamo imparato, e anche bene, e alcuni di noi lo centravano con apparente semplicità, facendo diventare facile qualcosa che ai non addetti ai lavori sembrava impossibile.
Così anche quella domenica eravamo lì.
Era il giorno di partite. Novembre inoltrato, pieno girone d’andata, squadre ormai rodate perfettamente, meccanismi consolidati, la squadra si muoveva in sincrono come gli ingranaggi di un motore di una automobile.
Quella sera l’avversario di turno era il Campobasso. Vincemmo noi. Non era facile, ma vincemmo.
Poi c’era un’altra partita, dopo la nostra. Ovviamente vedemmo anche quella. Non ci bastava mai.
E poi successe l’Apocalisse. All’inizio nessuno capì. Certo, quei lampioni che sbattevano contro il soffitto in modo assurdo e la tribuna che ballava sotto i piedi come un luna park non era un bel segnale per stare tranquilli. Non eravamo alle giostre, ma dentro un palazzetto dello sport. Eravamo in tanti e ci precipitammo verso la piccola uscita che dava all’esterno. Topi in fuga, ammassati, impauriti, terrorizzati, alcuni meno forti cadevano travolti dalla corsa forsennata della massa verso la salvezza. Altri cercavano di fare da scudo umano per proteggerli, per impedire che venissero calpestati. ma non c’è mai molto da fare contro l’irrazionalità, la paura della folla terrorizzata.
Una volta fuori, la paura non si era placata. La gente, ignara, attonita, gli sguardi smarriti a chiedere cosa fosse successo. Era proprio quella cosa lì? Era quello il terremoto? Ne avevamo solo sentito parlare, ma viverlo era tremendamente diverso.
Non eravamo pronti, non lo sapevamo che potesse essere così terribile.
Poi la casa alle spalle del palazzetto sembrava ridotta proprio male, anzi di più. Era squartata come se avessero gettato una bomba, e si sparse la notizia che c’erano anche dei morti.
Allora la smorfia di paura divenne terrore, specie in quelli che avevano poco coraggio, ed erano i più.
Gli altri, quelli più grandi, cercavano di tranquillizzare i primi: è finita, stai tranquilla, adesso è tutto finito, andiamo a casa, su andiamo a casa. Il gesto più ricorrente di tutti era quello che non aveva bisogno di parole: l’abbraccio.
E il pensiero correva ai nostri cari. Cosa sarà successo nelle nostre case?
Non c’erano telefonini per chiamare, non c’era il web per capire subito cosa fosse accaduto, c’erano solo le nostre gambe per correre, per fermare la gente per strada: come state? Com’è andata a voi? Dove eravate, in casa? Ci sono danni? State tutti bene?
E poi a casa, finalmente incontrare i genitori, allora, com’è andata? State bene? Cristo, la casa è distrutta, e come faremo adesso?
Il clima era caldo, incomprensibilmente caldo, e i cani latravano alla luna come se fossero stati colpiti anche loro da una paura che non sapevano spiegare. Gli uomini e gli animali, davanti a certe manifestazioni della Natura, si comportano allo stesso modo, con irrazionalità, paura.
Non eravamo pronti. Mente chi dice che ci è abituato. A certi drammi non ci si abitua mai.
Quando giocammo la partita di ritorno del nostro campionato, a Campobasso, ci chiamarono: terremotati.
Ci scagliammo contro il pubblico, si scatenò una rissa, la partita non terminò mai. Quelli non lo immaginavano nemmeno quello che avevamo passato. Se non conosci l’Apocalisse, non la puoi capire.
Al viaggio di ritorno sul pulmino non dicemmo una sola parola.
C’era solo la notte, sull’autostrada, e i fari lunghi del pulmino che ci riportava a casa.